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Svolgimento del processo
La società Studio A ’78 Sas di A.A. & C. aveva proposto ricorso avverso l’intimazione di pagamento di Euro 252.949,23, a titolo di tributi, crediti previdenziali e sanzioni amministrative, relativi agli anni 2003-2014, riportati in numerose cartelle di pagamento.
La Commissione tributaria provinciale di Viterbo, con sentenza n. 791-04-16, dichiarò il difetto di giurisdizione per le cartelle relative a crediti previdenziali ed a violazioni del codice della strada, dichiarò la propria incompetenza territoriale per i crediti fiscali vantati dalla Regione Lazio, annullò, in parziale accoglimento del ricorso, i crediti prescritti.
L’Agenzia delle Entrate propose appello relativamente a due cartelle esattoriali, la n. (Omissis), sull’assunto che la pretesa tributaria in essa portata non si fosse prescritta, per l’intervenuta procedura di pignoramento -conseguente al parziale pagamento del condono regolato dalla legge n. 289-2002- e dunque di validi atti interruttivi; la n. (Omissis), perché correttamente notificata nelle forme di cui all’art. 145, secondo comma, cod. proc. civ.
Anche la società Studio A ’78 Sas di A.A. & C. propose appello incidentale, per quanto soccombente in primo grado. Sostenne a tal fine l’erronea declaratoria d’incompetenza territoriale con riferimento alle cartelle relative alle tasse automobilistiche; censurò l’erroneità della motivazione in ordine alle cartelle che il giudice di primo grado aveva ritenuto regolarmente notificate. In controdeduzione ai motivi dell’appello erariale rilevò la violazione dell’art. 53, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, per omessa notifica dell’appello a tutte le parti del procedimento di primo grado.
La Commissione tributaria regionale ha ritenuto fondato l’appello principale e ha rigettato l’appello incidentale.
In particolare, i giudici di secondo grado hanno affermato che:
– per la cartella esattoriale n. (Omissis) non era intervenuta alcuna decadenza della pretesa tributaria, essendo stati compiuti atti interruttivi a mezzo della procedura di pignoramento, attivato a seguito del parziale pagamento del condono ex legge n. 289-2002; quanto alla cartella n. (Omissis), la notifica era risultata correttamente eseguita nelle forme di cui all’art. 145 cod. proc. civ.;
– erano generiche e non centrate le doglianze introdotte nell’appello incidentale della contribuente, atteso che corretto e meticoloso era stato il controllo delle notifiche e corretta era stata la declaratoria di incompetenza territoriale per i crediti della Regione Lazio;
– era pacifico che in grado d’appello potessero utilmente prodursi documenti non depositati nel giudizio di primo grado.
La società ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sei motivi, ulteriormente illustrati da memorie. L’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Entrate – Riscossione hanno resistito con controricorso.
La Regione Lazio e la Camera di Commercio Industria e Artigianato di Viterbo non hanno svolto difese.
Fissata l’adunanza camerale dell’8 febbraio 2023, al suo esito il collegio della Sezione tributaria ha ritenuto di rimettere il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ.
Nello specifico, sotto il profilo nomofilattico, si è riconosciuta la rilevanza della questione posta con il primo motivo di ricorso, ossia la violazione o falsa applicazione dell’art. 53, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per omessa notifica del ricorso in appello nei confronti della Regione Lazio e della Camera di Commercio di Viterbo, parti nel giudizio di primo grado, ancorché il giudice provinciale avesse escluso la legittimazione passiva dei predetti enti.
Il collegio rimettente ha pertanto proposto la seguente questione: “se l’art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992, disciplini o meno un litisconsorzio necessario processuale che imponga sempre, prescindendo dal carattere scindibile o inscindibile delle cause o della loro dipendenza ai sensi degli artt. 331 e 332 cod. proc. civ., l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado, ovvero se il legislatore abbia inteso rendere la materia del litisconsorzio nel processo tributario di secondo grado autonoma rispetto a quella contenuta nel codice di procedura civile, così evidenziando gli aspetti peculiari della disciplina del processo tributario di appello e tra questi le modalità di proposizione dell’appello tributario stabilite dall’art. 54 del decreto legislativo n. 546 del 1992“.
All’esito dell’udienza pubblica, sentite le difese e la Procura generale, la causa è stata riservata e decisa. Le parti hanno depositato memorie difensive.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve rilevarsi la tempestività del ricorso.
L’art. 6 del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119 (convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136), al comma 11, prevede che “Per le controversie definibili sono sospesi per nove mesi i termini di impugnazione, anche incidentale, delle pronunce giurisdizionali e di riassunzione, nonché per la proposizione del controricorso in Cassazione che scadono tra la data di entrata in vigore del presente decreto e il 31 luglio 2019”.
La sentenza ora al vaglio della Corte è stata depositata in data 3 ottobre 2018 e il termine di impugnazione scadeva il 3 aprile 2019, termine prorogato di nove mesi (3 gennaio 2020) per effetto della disposizione in commento: il ricorso, notificato a mezzo del servizio postale ai diversi soggetti controinteressati, nelle date del 20 dicembre 2019 (Agenzia delle Entrate e Camera di Commercio Industria e Artigianato di Viterbo), 27 dicembre 2019 (Regione Lazio) e 2 gennaio 2020 (Agenzia delle Entrate – Riscossione) (cfr. pag. 20 del controricorso) è, pertanto, tempestivo.
Sempre in via preliminare va rilevato che le Agenzie controricorrenti hanno evidenziato che le imposte relative alle cartelle esattoriali nn. (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis) e (Omissis) erano state oggetto, di apposito provvedimento di discarico amministrativo, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 4, primo comma, del decreto legge n. 119 del 2018, convertito con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, che prevede l’annullamento dei debiti fino a mille euro affidati in riscossione agli agenti della riscossione dal 2000 al 2010.
Pertanto, con riferimento esclusivo alle predette cartelle, è cessata la materia del contendere.
Esaminando il merito, con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 53 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e 331, cod. proc. civ.; la mancata integrazione del contraddittorio; la nullità del processo di secondo grado e della sentenza impugnata; la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; vizio di error in procedendo denunciabile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
La contribuente ritiene che la decisione opposta abbia violato la normativa in epigrafe, funzionale a garantire la celebrazione del giudizio di appello nei confronti di tutte le parti del primo grado. La Commissione tributaria regionale era stata sollecitata ad accertare pregiudizialmente se l’atto d’appello presentato dall’Agenzia delle entrate fosse stato ritualmente notificato a tutte le parti che avevano partecipato al processo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Viterbo e nelle proprie controdeduzioni la stessa Direzione Provinciale dell’Amministrazione Finanziaria aveva esposto che “qualora codesta Onorevole Commissione Tributaria ritenesse necessario l’intervento della Regione Lazio e della Camera di Commercio di Viterbo, si chiede l’integrazione del contraddittorio”. La società ricorrente aveva altresì ribadito le proprie domande ed eccezioni all’udienza di trattazione del 4 giugno 2018, ma della valutazione di tali sollecitazioni non vi era traccia nella sentenza impugnata nella presente sede. In assenza del doveroso simultaneus processus, la società STUDIO A’78 Sas non avrebbe potuto ottenere un giudicato vincolante anche nei riguardi della Camera di Commercio di Viterbo e della Regione Lazio, pretermesse dal secondo grado, avendo la stessa società impugnato incidentalmente anche la parte della sentenza che l’aveva vista soccombente nei riguardi della Camera di Commercio. Parallelamente, la Regione Lazio non aveva potuto prendere parte al procedimento di appello, né avrebbe potuto farlo tempestivamente pur in presenza di appello incidentale nei suoi confronti.
Su questo motivo, relativo alla denuncia della mancata costituzione del contraddittorio in appello nei confronti di tutte le parti presenti nel giudizio di primo grado – che la società sottolinea del tutto ignorato dal collegio regionale -, la Sezione tributaria ha investito le sezioni unite, ritenendone la rilevanza sotto il profilo nomofilattico.
Nell’ordinanza di rimessione la sezione tributaria si è soffermata nel ricostruire meticolosamente sia la portata applicativa, sia le conseguenze del mancato assolvimento, da parte dell’appellante, dell’onere di notificazione dell’atto di impugnazione nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado. Ciò alla luce delle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali.
Nello specifico ha avvertito che sono emersi orientamenti diversi in tema di unitarietà del litisconsorzio nel processo tributario d’appello, con riferimento alle cause scindibili ed inscindibili, da collegare con l’art. 54 del D.Lgs. n. 546 del 1992, che a sua volta si pone, quanto alla proposizione dell’appello incidentale, in chiave di rilevanza costituzionale del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
Perimetrando il giudizio d’appello nel processo tributario con le norme ad esso direttamente dedicate (artt. 52-61, Sezione II del capo III del D.Lgs. n. 546 del 1992), nonché mutuate dal giudizio di primo grado (capo I del titolo II della medesima disciplina), il collegio rimettente ha registrato un orientamento interpretativo, secondo cui, trovando applicazione la disciplina sulle impugnazioni dettata in materia processual-civilistica, in forza dell’art. 49 del citato decreto legislativo, ad esso, si sostiene, debbano applicarsi anche gli artt. 331 e 332 cod. proc. civ.
Si è peraltro soffermata sul contenuto dell’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992 – che prescrive che il ricorso sia proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado – e sull’art. 54 cit. – che prevede che la costituzione in giudizio della parte appellata e la proposizione dell’appello incidentale (quest’ultima a pena di inammissibilità) avvengano nei modi e nei termini di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 546 cit. -.
Nell’illustrare quindi gli approdi dottrinali e giurisprudenziali in materia, ha avvertito che l’art. 53, comma 2, cit., è finalizzato a tutelare il cumulo soggettivo in sede di impugnazione, e si è interrogata sull’applicabilità o meno degli artt. 331 cod. proc. civ. (integrazione del contraddittorio in cause inscindibili) e 332 cod. proc. civ. (notificazione dell’impugnazione relativa a cause scindibili), indirizzando quindi l’attenzione sulla individuazione delle cause inscindibili e di quelle scindibili.
Ha rilevato che in giurisprudenza si riscontra un ampio riconoscimento dell’applicazione al processo tributario d’appello delle regole processual-civilistiche, dedotte dall’art. 331 cod. proc. civ.
Le suddette pronunce, muovendo dal presupposto che l’art. 331 cit. disciplini il litisconsorzio necessario sostanziale e quello processuale, affermano la necessità, con riguardo alle sole cause inscindibili o dipendenti, di ordinare, nell’ambito del giudizio d’appello, l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le parti del processo di primo grado, in forza della disposizione normativa di cui all’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992 – pur se la norma del processo tributario nulla dice in tema di inscindibilità o di dipendenza di cause -, con l’intento di evitare contrasti di giudicati sulla stessa materia e tra soggetti che siano stati già parti del giudizio in primo grado (richiama, ad es., Cass, 14 dicembre 2019, n. 33028; 6 novembre 2019, n. 28562; 9 dicembre 2019, n. 32085; 24 maggio 2019, n. 14213; per le cause tra loro dipendenti, 22 gennaio 1998, n. 567; 1 marzo 2011, n. 2998; 8 agosto 2003, n. 11946). Ciò, peraltro in ordine alle modalità di proposizione dell’appello incidentale, spiegherebbe che la sua formulazione sia prevista esclusivamente “nel contesto della memoria di controdeduzioni”, senza imporre all’appellante incidentale alcun onere di notifica a parti non evocate in giudizio dall’appellante incidentale (sic nell’ordinanza di rimessione, ma per evidenza logica riferito all’appellante “principale”)” (ad es. richiama Cass., 18 aprile 2017, n. 9757; 15 luglio 2020, n. 14982).
Ha quindi richiamato numerose altre pronunce che, partendo dal presupposto della scindibilità delle cause, hanno affermato l’insussistenza dell’obbligo di disporre la notificazione dell’atto di appello in favore della parte, pure presente nel giudizio di primo grado, sull’assunto della sua estraneità al rapporto sostanziale dedotto in giudizio d’appello e della conseguente scindibilità delle cause, ritenendo insussistente la violazione dell’art. 53, comma 2, già sopra menzionato. A tal proposito vengono evocati taluni precedenti, nei quali il litisconsorzio tra Amministrazione finanziaria e concessionario del servizio di riscossione è stato riconosciuto solo in presenza di cause inscindibili, perché investito con il ricorso tanto il merito della pretesa tributaria, quanto i vizi propri della cartella. Al contrario, nelle ipotesi in cui le censure non investivano vizi propri della cartella, si è negata la violazione del contraddittorio nei confronti dell’ente di riscossione, così che la mancata proposizione dell’appello anche nei confronti di quest’ultimo, pur convenuto in primo grado unitamente all’Amministrazione finanziaria, non comporta l’obbligo di disporre la notificazione del ricorso in suo favore, tanto più quando ormai decorso il termine per l’impugnazione, essendo egli estraneo al rapporto sostanziale dedotto in giudizio. Tali conclusioni sono giustificate dal riconoscimento della scindibilità della causa nei suoi confronti (l’ordinanza richiama, tra le varie, Cass., 5 novembre 2021, n. 31922; 28 aprile 2021, n. 11165; 29 aprile 2020, n. 8329; 27 ottobre 2017, n. 25588; 3 gennaio 2014, n. 45).
Nel suo sviluppo argomentativo l’ordinanza interlocutoria ha quindi avvertito che in numerosi precedenti si è posta la questione della compatibilità o meno delle regole contenute negli artt. 331 e 332 cod. proc. civ. con il processo tributario e, in particolare, con l’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, “sulla base del presupposto secondo cui anche nel processo tributario vale la dicotomia cause scindibili e inscindibili, per cui, quando le cause sono scindibili e la parte pretermessa non ha avuto notificato l’appello e sono decorsi i termini per proporre l’appello, non occorre integrare il contraddittorio. Nella sostanza si afferma che il legislatore tributario, con la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 53 D.Lgs. n. 546 del 1992 non abbia introdotto, con specifico riferimento al processo tributario di appello, una fattispecie di litisconsorzio processuale (generalizzato) senza deroghe, ovvero indipendentemente dalla circostanza che le cause siano scindibili o meno”.
Avviandosi alla conclusione, il collegio rimettente ha tuttavia anche evidenziato che, secondo l’opposta lettura dell’art. 53, comma 2, cit., l’art. 332, comma 1, cod. proc. civ., non potrebbe trovare applicazione nel processo tributario per incompatibilità con le regole che lo disciplinano, secondo la clausola di salvaguardia ex art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992. Ha inoltre segnalato un vulnus nell’impianto ermeneutico favorevole all’applicazione delle norme processual-civilistiche. Ha infatti sostenuto che nel processo tributario “tenuto conto che l’appello incidentale può essere proposto solo con il deposito dell’atto contenente le controdeduzioni, ai sensi dell’art. 54 D.Lgs. n. 546 del 1992, la parte appellata che ha interesse ad impugnare nei confronti di tutte le parti presenti nel giudizio di primo grado, nelle cause scindibili (come è quella in esame), non può notificare la sua impugnazione incidentale alle parti presenti nel giudizio di primo grado ai quali l’appellante principale non ha notificato il suo atto di appello, così non consentendogli di instaurare il contraddittorio con le parti interessate dal capo della sentenza da lui impugnata e che l’ha vista soccombente, con evidente grave lesione del suo diritto di difesa”.
Di qui l’insorgere della necessità di rimessione della questione di massima di particolare importanza, nei termini già illustrati in premessa.
Orbene, la riflessione stimolata sul tema dall’ordinanza di rimessione coinvolge una pluralità di norme, che non possono individuarsi nei soli artt. 53 e 54 della legge processuale tributaria, e negli artt. 331 e 332 del codice di procedura civile, coinvolgendo invece il plesso delle regole dettate in tema di processo d’appello nella specifica materia tributaria, così come nel processo civile, e che a loro volta non possono prescindere dalle regole che sul cumulo delle cause, tanto sotto il profilo soggettivo, quanto sotto quello oggettivo, presidiano il processo dal momento stesso della sua insorgenza, accompagnandolo nel corso del suo sviluppo in primo grado.
È quindi opportuno avvertire che la disciplina dettata in tema di pluralità di parti e pluralità di cause in sede d’impugnazione deve prioritariamente tener conto della inscindibilità e-o scindibilità delle cause, prima ancora che della categoria del litisconsorzio.
Ciò non perché si intende contrapporre le suddette categorie giuridiche, delle quali anzi l’una comprende, o se si vuole è sovrapponibile o parzialmente sovrapponibile all’altra, ma perché, tendenzialmente, l’una manifesta e regola il cumulo soggettivo (come nel litisconsorzio necessario sostanziale) o anche oggettivo di posizioni giuridiche (anche dipendenti), che siano portate all’attenzione dell’organo giudicante sin dalla sua introduzione, oppure nello sviluppo del giudizio di primo grado (per via degli interventi o delle chiamate in causa); l’altro, altrettanto tendenzialmente, è finalizzato a configurare una regola di valore, che si traduce nel riconoscimento della necessità, oppure della utilità o, infine, della mera opportunità, che per cause, che abbiano percorso un tratto in comune nel processo di primo grado, sussistano ancora i presupposti perché il percorso prosegua unitariamente in sede di gravame; oppure, al contrario, che per talune di esse potrebbero essersi esaurite le ragioni di questo comune cammino.
In tal senso va richiamata quella dottrina processual-civilistica che, in ragione delle regole poste dagli artt. 331 e 332 cod. proc. civ., ha opportunamente osservato come per la verifica del se e del come il litisconsorzio, realizzatosi in primo grado, possa proseguire nelle fasi di gravame, occorre distinguere fra tre categorie di cause: quelle inscindibili (con la precisazione che, quando è inscindibile, la causa è unica e una sola, benché con pluralità di parti che hanno legittimazione a contraddire); quelle tra loro dipendenti (bisognose di decisioni tra loro coordinate); quelle scindibili. Esse sono definite “categorie-contenitori”, entro le quali l’interprete può ricondurre le numerose ed articolate ipotesi di litisconsorzio previste per il giudizio di primo grado.
Il compito di “riempire” le categorie-contenitore spetta dunque all’interprete, laddove gli artt. 331 e 332 cod. proc. civ. presidiano le regole applicabili a seconda del contenitore in cui la causa o le cause vanno a collocarsi, nello specifico prescrivendo come recuperare l’integrità del contraddittorio, compromesso dalla mancata vocazione di tutte le parti necessarie alla prosecuzione del processo, o per le quali si riveli almeno opportuna la contestuale presenza nella fase del gravame.
Le due norme regolano di conseguenza anche gli effetti dell’omessa integrazione del contraddittorio.
Su queste premesse è altrettanto opportuno osservare che in ordine al contenuto delle categorie-contenitore si sono indirizzati studi autorevoli e complessi precedenti giurisprudenziali, al fine di identificare quali fattispecie siano riconducibili ora nella causa inscindibile, ora in quelle dipendenti (nelle svariate ipotesi di litisconsorzio processuale), ora nelle cause scindibili.
A ciò fa richiamo anche l’ordinanza di rimessione. Ma, rispetto al tema su cui queste sezioni unite sono chiamate a riflettere, non è importante sapere se ed in quale contenitore siano riconducibili le singole fattispecie.
Ciò che la sezione tributaria rimettente si è invece chiesta, ed ha quindi richiesto, è se la disciplina processual-civilistica trovi applicazione anche al processo tributario, e cioè se l’art. 53 del D.Lgs. n. 546 del 1973 sia compatibile – ex art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1973 -, per contenuto e per quanto esso sottende in termini di effetti nell’ipotesi in cui l’impugnazione non sia stata indirizzata a tutte le parti del giudizio di primo grado, con la disciplina dettata dagli artt. 331 e 332 cod. proc. civ.
Sotto questo profilo i numerosi precedenti della stessa Corte di legittimità, ed implicitamente la dottrina che ha dettagliatamente sviscerato le innumerevoli ipotesi collocabili nelle categorie-contenitore, assumono utilità nella misura in cui servono a dipanare il “dubbio” costruttivo esposto nell’ordinanza interlocutoria. Ma di per sé, rispetto alla sollecitata riflessione, essi si pongono a valle, non certo a monte.
Se infatti, per ipotesi, dovesse concludersi che l’art. 53 cit. è incompatibile con il sistema prescritto dagli artt. 331 e 332 cod. proc. civ., non avrebbe alcuna importanza enucleare quali siano in materia tributaria le cause inscindibili e quelle scindibili, perché per tutte, dall’unica norma applicabile, l’art. 53 cit., dovrebbe sempre richiedersi, addirittura a pena di immediata declaratoria di inammissibilità – secondo quanto si prospetta nell’ordinanza interlocutoria -, la notifica dell’impugnazione principale a tutte le parti del giudizio di primo grado.
Risulta dunque necessario comprendere quali interessi le norme processuali civilistiche intendono tutelare con la distinzione tra cause inscindibili, cause dipendenti e cause scindibili, e se, individuati tali interessi, possa affermarsi che essi siano compatibili oppure incompatibili con la trama di interessi perseguita dal processo tributario.
Ebbene, come ben evidenziato in dottrina e giurisprudenza, nell’art. 331 cod. proc. civ. l’esigenza primaria che si manifesta è l’unitarietà decisionale della causa inscindibile anche nel grado di impugnazione. Quanto alle cause dipendenti, l’esigenza di unitarietà si replica in rapporto alla dipendenza tra decisioni o anche tra capi della sentenza.
La necessità della unitarietà decisionale fa comprendere perché, impugnata la decisione di primo grado tempestivamente anche da uno solo dei litisconsorti necessari, il conseguente meccanismo della integrazione del contraddittorio impedisce la decadenza dal potere di gravame di tutte le altre parti del processo di primo grado. Ciò vale anche a tenere in gioco le impugnazioni incidentali che il contraddittore integrato volesse spiegare a sua volta, ai sensi dell’art. 333 cod. proc. civ., comprese le impugnazioni tardive, ai sensi dell’art. 334 cod. proc. civ., purché risultino rispettati tempi e modalità del gravame incidentale.
Dal rigoroso meccanismo discende che, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., qualora anche uno dei litisconsorti di primo grado abbia provveduto all’impugnazione, il termine d’impugnazione per gli altri resta sospeso nei confronti di tutti.
Ciò si spiega con l’assunto che l’impugnazione non dà luogo ad un nuovo giudizio, e d’altronde la finalità essenziale dell’attività giurisdizionale è il conseguimento della incontrovertibilità della pronuncia, che con il suo giudicato fa stato tra le parti. Ripugnerebbe dunque che tra la pluralità di parti (parti litisconsortili, in cause inscindibili, o parti di cause dipendenti – per pregiudizialità o garanzia -) la decisione non risultasse unitaria.
Tanto è forte questa esigenza, che l’art. 331 cit. prevede che, se dopo l’ordine del giudice, che abbia disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti coloro ritenuti in posizione di inscindibilità o dipendenza, nessuno provveda alla suddetta integrazione, l’impugnazione, anche quella principale, è dichiarata inammissibile. Solo da questo momento passerebbe in giudicato la sentenza di primo grado.
Inoltre, la coerenza dello schema giunge sino a prevedere, per l’ipotesi in cui il giudice d’appello non abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio ed il processo, nonostante tutto, sia proseguito, che la sentenza emessa sia nulla. La nullità potrà essere rilevata anche d’ufficio in sede di legittimità.
Diversamente, si è avvertito, le cause tra loro scindibili, cumulate in primo grado per connessione oggettiva e costituzione di un litisconsorzio facoltativo, possono essere separate (anche in questo caso con molti distinguo, che tuttavia esulano dalle questioni che qui più direttamente interessano). In queste ipotesi, data la sostanziale autonomia delle posizioni giuridiche rappresentate, alcun ostacolo logico o giuridico impedisce che per alcune parti la sentenza di primo grado passi in giudicato, laddove altri possano reputare ancora insoddisfatto il proprio interesse ed a tal fine la impugnino.
La regola della incontrovertibilità della pronuncia, ossia il giudicato, in questo caso sarà enucleata dalla sentenza di primo grado per taluni, dalla sentenza emessa all’esito dell’impugnazione per altri.
E tuttavia anche in questa ipotesi il Legislatore non è insensibile alla tendenziale unitarietà del giudizio. Solo che ciò che in questa seconda ipotesi preoccupa non è il contrasto tra giudicati, ma, nell’evenienza che anche altre parti del processo, originariamente unitario, intendano impugnare la sentenza di primo grado, autonomamente, ciò non porti alla introduzione di più processi. La preoccupazione allora non è generata dall’intollerabile contrasto di decisioni rispetto all’unico oggetto della controversia, ma trova fondamento in una esigenza di economia processuale o, come pure sottolineato in dottrina, nell’intento di evitare differenze motivazionali delle decisioni (cd. contrasti logici).
Da questa esigenza sorge la disciplina dettata dall’art. 332 cod. proc. civ. e la previsione di conseguenze ben diverse, sia in riferimento alle finalità perseguite mediante l’ordine di comunicazione dell’impugnazione che il giudice deve impartire, sia in riferimento alle conseguenze della mancata comunicazione dell’impugnazione principale alle altre parti. L’unico effetto è infatti quello della sospensione del processo sino alla decorrenza dei termini previsti per la impugnabilità del provvedimento (artt. 325 e 327 cod. proc. civ.). Decorso tale termine, e acquisita la certezza che nessun’altra impugnazione separata potrà essere promossa in un diverso processo, il giudizio può proseguire.
In altri termini il comune denominatore della disciplina dettata dalle due norme sta nella necessità di preservare, per le ipotesi cui risulta applicabile l’art. 331 cod. proc. civ., l’unitarietà del processo e della decisione nel primo grado come nel gravame. Tale esigenza invece viene meno per le cause che trovino collocazione nell’alveo dell’art. 332 cod. proc. civ.
La distinzione sta dunque nella constatazione che in ipotesi di cause scindibili qualcuno può scegliere di non proseguire la lite, oppure può scegliere di non proporre l’impugnazione nei confronti di colui che ritiene carente di legittimazione passiva rispetto al diritto reclamato in primo grado.
Si tratta evidentemente di fattispecie nelle quali non è d’ostacolo che statuizioni diverse regolino i rapporti già vagliati in primo grado. Ciò invece non avviene con riguardo alle cause inscindibili o dipendenti.
Queste conclusioni risultano ampiamente condivise nella giurisprudenza di legittimità, laddove, per limitarsi ai soli precedenti in materia fiscale, e con riguardo proprio ai rapporti tra Agenzia delle entrate ed ente riscossore, si è affermato che “il litisconsorzio in appello tra A.E. e concessionario del servizio di riscossione (nel caso di evocazione in giudizio di entrambi in primo grado) sussiste solo nel caso di cause inscindibili, per aver le censure investito, oltre al merito della pretesa tributaria, anche vizi propri della cartella, con la conseguenza che, nella specie, non investendo le censure vizi propri della cartella (per quanto emerge tanto dalla sentenza impugnata quanto dallo stesso ricorso per cassazione), non vi è stata violazione del contraddittorio nei confronti di Equitalia” (Cass., 5 novembre 2021, n. 31922; e, ex multis, 9 maggio 2007, n. 10580; 3 gennaio 2014, n. 45; 12 novembre 2014, n. 24083; 27 ottobre 2017, n. 25588; 29 aprile 2020, n. 8329; 14 settembre 2020, n. 19074; 28 aprile 2021, n. 11165).
Al di là della giurisprudenza appena richiamata, che l’ordinanza di rimessione peraltro non ignora, occorre comunque verificare se i principi che improntano la disciplina processual-civilistica siano mutuati o mutuabili nel processo tributario.
La prima opzione metodologica è quella di percorrere uno schema argomentativo finalizzato ad identificare ragioni di esclusione dei principi processual-civilistici. Il secondo, speculare al primo ovviamente, perché posto da una prospettiva propositiva, è chiedersi se vi siano ragioni per ritenere corretta l’applicazione delle regole processual-civilistiche al processo tributario.
In coerenza con il ragionamento seguito dall’ordinanza di rimessione, nell’ordine può percorrersi il primo schema.
Il collegio rimettente della sezione tributaria è ben consapevole dell’orientamento maggioritario della giurisprudenza, di cui richiama infatti tanto le numerose pronunce, che nell’invocare l’art. 331 cit. in ipotesi di cause in cui le parti si pongono in rapporto di litisconsorzio necessario sostanziale, oppure in rapporto di litisconsorzio necessario processuale, hanno riconosciuto la necessità che il giudice d’appello debba procedere all’ordine di integrazione del contraddittorio, quanto quelle, altrettanto numerose, che hanno riproposto lo schema “cause inscindibili o dipendenti – cause scindibili”, con un chiaro richiamo dunque anche all’art. 332 cod. proc. civ. (p. 10 ss. dell’ordinanza interlocutoria). E tuttavia quel collegio assume che, ciò nonostante, il dato normativo offerto dall’art. 53, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992 non fa alcun cenno alla distinzione tra cause inscindibili o dipendenti e, implicitamente, a quelle scindibili. A tal fine prospetta che la categoria delle cause scindibili “non potrebbe trovare applicazione nel processo tributario per incompatibilità con le regole che lo disciplinano, secondo la clausola di salvaguardia ex art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992“.
Più in generale, nel sintetizzare le ragioni della sollecitata riflessione, ci si chiede se l’art. 53 disciplini o meno un litisconsorzio necessario processuale, che prescinda dalla distinzione tra cause scindibili e inscindibili ed imponga sempre l’integrazione del contraddittorio, oppure se con quella norma il litisconsorzio nel processo tributario abbia una disciplina del tutto autonoma rispetto a quella processual-civilistica.
La considerazione, che sollecita una riflessione sul dato testuale della norma, nonché sul rapporto tra processo tributario e processo civile, ancorandosi alla clausola di salvaguardia, di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546, cit., volendo implicitamente sottintendere che l’art. 53, comma 2, cit., costituisce norma speciale, in materia fiscale integralmente sostitutiva della disciplina processual-civilistica, prova troppo.
In primo luogo non tiene conto che il processo d’appello trova la propria regolamentazione non soltanto nelle norme comprese nella sezione II del capo III del titolo II (artt. 49–61 del D.Lgs. n. 546 del 1992), ma anche nella disciplina del processo civile, richiamata specificamente dall’art. 49 della legge processuale tributaria, nonché nelle regole processuali del procedimento di primo grado, richiamate dall’art. 61 della medesima legge.
Riservando a breve le considerazioni deducibili dalla previsione di rinvio alla disciplina processual-civilistica, occorre evidenziare che il richiamo contenuto nell’art. 61 cit. al processo di primo grado non può prescindere dalle regole sulla costituzione del contraddittorio e dalla analitica disciplina del litisconsorzio, a cui è dedicato l’art. 14 della legge processuale.
Sebbene tale norma non rientri rigorosamente nel plesso normativo nel capo I del titolo II (artt. 18-46, dedicato al processo ordinario di primo grado), è infatti innegabile che nel trattare delle parti, ed in particolare delle cause con più parti, essa informi le regole processuali tout court, di primo come di secondo grado.
Ebbene, tale norma nel primo comma fa espresso richiamo ai soggetti inscindibilmente collegati; nel secondo comma richiama la necessità della integrazione del contraddittorio, se l’oggetto della causa riguardi inscindibilmente più soggetti; nel terzo comma disciplina l’intervento volontario o la chiamata in giudizio, comunque parti del rapporto tributario controverso; nel quarto comma prevede che i chiamati si costituiscono nelle forme prescritte per i resistenti, per quanto esse applicabili; nel quinto dispone che gli interventori, di cui anche al comma 3, intervengono notificando apposito atto a tutte le parti, sia pur con comparsa di costituzione propria dei resistenti; nel sesto dispone che i chiamati e gli interventori non possono impugnare autonomamente, se per essi è già decorso il termine di decadenza.
Si tratta di una norma dalla quale si evince tanto il consapevole ingresso nel processo tributario delle cause inscindibili, quale litisconsorzio necessario sostanziale, quanto, con riguardo alle ipotesi di interventori volontari o chiamati in giudizio, tutta quella variegatissima casistica che si traduce nelle fattispecie processuali del litisconsorzio processuale e delle cause dipendenti, ma anche delle cause scindibili, accomunate però nella trattazione unitaria in primo grado.
Non serve sul punto ipotizzare che l’art. 14 cit. si rivolge alle sole ipotesi di litisconsorzio necessario. Infatti, a parte il dato testuale, dal quale si evince la pluralità di ipotesi riconducibili nella norma – soprattutto quando si tratta degli interventi -, come già evidenziato da acuta dottrina a proposito di controversie per obbligazioni solidali, vi sono cause che risultano inscindibili in appello in ragione dell’atteggiarsi e dello sviluppo del processo di primo grado, senza che tale posizione coincidesse con quella iniziale. Ciò può ben verificarsi al contrario (d’altronde, in materia tributaria, qualora il processo sia stato introdotto nei confronti del concessionario alla riscossione, per vizi propri della cartella, nonché, per decadenza dal potere d’accertamento nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che a tal fine interviene nel giudizio, l’acquisita prova dell’atto interruttivo della decadenza dal potere accertativo, su cui il contribuente si acquieti, reputando inutile ogni ulteriore contrasto, rende del tutto inutile la prosecuzione del processo d’appello nei confronti della Amministrazione finanziaria, che pur in primo grado si poneva in rapporto di litisconsorzio processuale con il concessionario).
L’integrazione del contenuto dell’art. 53 cit. a mezzo delle altre norme regolanti il processo tributario di primo grado, o comunque di quelle che conformano la costituzione del contraddittorio nel processo, scoraggia dunque una interpretazione circoscritta e limitante delle modalità con le quali può prospettarsi l’appello nel processo tributario, poiché risulta già evidente che il contenuto non è racchiuso nel solo art. 53, comma 2, cit.
A questo primo riferimento si accompagna poi la espressa previsione, contenuta nell’art. 49 cit., della applicabilità al processo d’appello delle norme che regolano il gravame di secondo grado in sede processual-civilistica (con espressa esclusione del solo art. 337 cod. proc. civ.).
A tal proposito la dottrina ha già da tempo avvertito che l’art. 53, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, a dispetto di una formulazione rigida, al punto da far prospettare una “immediata” inammissibilità dell’appello qualora l’appellante principale non abbia provveduto ad evocare in giudizio tutte le parti del giudizio di primo grado, è invece semplicemente da intendersi quale “regola tendenziale di condotta”, che pertanto va integrata proprio con la disciplina contenuta negli artt. 331 e 332 del cod. proc. civ.
Sul punto si è infatti osservato come il desumere l’inscindibilità delle controversie tributarie dall’art. 53, comma 2 cit., in difetto di ulteriori e più penetranti indicazioni sarebbe inaccettabile, costituendo un unicum della esperienza processuale la generalizzata previsione della inscindibilità delle controversie ad opera di una disposizione, che – in virtù della sua generalizzata portata – prescinderebbe dall’apprezzamento delle situazioni sostanziali od attinenti allo svolgimento della prima fase del giudizio.
Si è avvertito peraltro come una tale soluzione si porrebbe in netto contrasto con la disciplina del processo civile, che informa di sé il giudizio tributario, senza che se ne ravvisi alcuna effettiva ragione od esigenza.
E vi è chi, proprio partendo dall’interesse presidiato dall’art. 53 cit., cioè il preservare l’unità del giudizio in sede di gravame, per evitare la frantumazione del processo in primo grado e il pericolo di contrasto tra giudicati, ha conseguentemente argomentato che il compito della norma si compie in questo perimetro, così che, fuori da esso, ossia da tali pericoli, non vi sarebbe ragione per non applicare i criteri generali delle cause inscindibili o dipendenti, ma anche di quelli delle cause scindibili, come regolati dagli artt. 331 e 332 cod. proc. civ.
Si tratta di puntuali osservazioni, che sollecitano una interpretazione sistematica razionale del sistema processuale tributario, in coerenza con i principi applicabili nel processo civile.
D’altronde è la stessa preponderante giurisprudenza della Sezione tributaria a non aver mai dubitato che anche nel processo tributario debba applicarsi la distinzione tra cause inscindibili-dipendenti e cause scindibili, affermando che la disposizione di cui all’art. 53, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui l’appello dev’essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili. In conseguenza si è ritenuto che, ove la controversia abbia ad oggetto l’esistenza dell’obbligazione tributaria, la mancata proposizione dell’appello anche nei confronti del concessionario del servizio di riscossione, convenuto in primo grado unitamente all’Amministrazione finanziaria, non comporta l’obbligo di disporre la notificazione del ricorso in suo favore, quando sia ormai decorso il termine per l’impugnazione, essendo egli estraneo al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, con la conseguente scindibilità della causa nei suoi confronti, anche nel caso in cui non sia stato eccepito o rilevato il suo difetto di legittimazione (sul principio e sulla numerosa casistica, cfr. Cass., nn. 10580 del 2007, cit.; 24083 del 2014, cit.; 25588 del 2017, cit.; 31922 del 2021 cit.; ed inoltre 3 gennaio 2014, n. 245; in epoca ancora anteriore cfr. 6 maggio 2002, n. 6450; 17 settembre 2001, n. 11667; argomentando al contrario si perviene alle medesime conclusioni in Cass., 6 novembre 2013, n. 24868; 18 settembre 2015, n. 18361; 13 luglio 2016, n. 14253; 28 febbraio 2018, n. 4597; 14 luglio 2021, n. 20038).
In ogni caso mai la giurisprudenza ha sostenuto che, alla mancata evocazione in appello di una delle parti del giudizio di primo grado, possa seguire una declaratoria d’inammissibilità, al contrario ritenendo sempre necessario un preventivo ordine di integrazione del contraddittorio.
Così, si è affermato che nell’ipotesi d litisconsorzio processuale, che determina l’inscindibilità delle cause anche ove non sussistente il litisconsorzio necessario di natura sostanziale, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l’inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d’ordinare l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., nei confronti della parte pretermessa, pena la nullità del procedimento di secondo grado e della sentenza che l’ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità (Cass., 27 maggio 2015, n. 10934; 30 ottobre 2018, n. 27616).
Argutamente e consequenzialmente la dottrina ha rilevato che nel secondo comma dell’art. 53, D.Lgs. n. 546 del 1992, manca in ogni caso la previsione della sanzione della immediata inammissibilità dell’appello.
A sostegno dello stretto coordinamento tra processo civile e processo tributario si è voluto valorizzare la stessa impostazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, che, a differenza della disciplina anteriore, dettata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 636 (nella vigenza del quale già era comunemente riconosciuta l’applicabilità degli artt. 331 e 332 cod. proc. civ. al processo tributario), è stata concepita sulla falsariga dell’impianto organico del codice di procedura civile. Ciò conferma lo stretto rapporto tra le regole processuali tributarie e quelle civilistiche, che vanno ad integrare ed implementare le prime.
Dunque, il quadro emergente dagli interventi della dottrina e dalle statuizioni della giurisprudenza non lascia dubbi sull’applicabilità nel processo tributario della disciplina processual-civilistica, dettata dagli artt. 331 e 332 cod. proc. civ.
Può allora darsi risposta positiva anche alla seconda opzione metodologica, speculare alla prima, ossia se vi siano ragioni per ritenere corretta l’applicazione delle regole del processo civile al processo tributario.
A tal fine, nell’ordinanza interlocutoria si fa infatti richiamo ad un inconveniente che potrebbe insorgere, qualora non fosse assicurata la notificazione dell’appello principale nei confronti di tutte le parti del giudizio di primo grado.
Si afferma che “tenuto conto che l’appello incidentale può essere proposto solo con il deposito dell’atto contenente le controdeduzioni, ai sensi dell’art. 54 D.Lgs. n. 546 del 1992, la parte appellata che ha interesse ad impugnare nei confronti di tutte le parti presenti nel giudizio di primo grado, nelle cause scindibili (come è quella in esame), non può notificare la sua impugnazione incidentale alle parti presenti nel giudizio di primo grado, ai quali l’appellante principale non ha notificato il suo atto di appello, così non consentendogli di instaurare il contraddittorio con le parti interessate dal capo della sentenza da lui impugnata e che l’ha vista soccombente, con evidente grave lesione del suo diritto di difesa”.
A parte che l’inconveniente risulterebbe ristretto alle sole parti coinvolte nelle cause scindibili, in ogni caso anche questa preoccupazione, manifestata nell’ordinanza interlocutoria, non è di ostacolo alle conclusioni appena raggiunte, rinvenendosi nelle stesse norme della legge processuale tributaria la soluzione tecnica, come prospettato anche in dottrina, per tutelare il diritto di difesa dell’appellato, che intenda a sua volta spiegare appello incidentale nei confronti di un soggetto diverso dall’appellante principale.
In dottrina si è ipotizzato che non vi sono norme che impediscano che l’appello incidentale, quando destinato a rivolgersi anche a parti non evocate dall’appellante principale, debba essere non solo depositato, ma anche notificato a queste ultime.
L’osservazione è corretta e condivisibile, se solo ci si soffermi a rilevare che l’art. 54 cit., secondo cui l’appello incidentale deve essere proposto con le medesime controdeduzioni, nei modi e termini dell’art. 23, del D.Lgs. n. 546 del 1992, ossia presso la segreteria della Corte di giustizia di II grado adita, ha quale presupposto proprio l’impugnazione nei confronti dell’appellante principale e comunque delle altre parti costituite in ragione della causa inscindibile o delle cause dipendenti, nelle quali le parti sono già coinvolte.
Dunque, l’art. 54, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992 non contempla la diversa ipotesi di cui si tratta, ossia la parte, cui si indirizzerebbe l’appello incidentale, che era presente nel giudizio di primo grado, ma che non è più tale nel giudizio di gravame. È giocoforza che a costui occorra notificare l’atto impugnatorio incidentale, che di fatto lo rimette nel processo.
Ciò deve avvenire, prima ancora che a tutela del diritto di difesa dell’appellante incidentale, a presidio di garanzia del diritto di difesa dell’appellato incidentale.
Tali conclusioni non sono solo frutto di un ragionamento puramente logico, ma trovano addentellati normativi nella stessa disciplina processuale tributaria. In particolare, è ancora una volta l’art. 14 cit. a dover essere richiamato. In esso, infatti, dopo che con il comma 4 si dispone che “le parti chiamate si costituiscono in giudizio nelle forme prescritte per la parte resistente, in quanto applicabili”, nel comma 5 è previsto che “i soggetti indicati nei commi 1 e 3 intervengono nel processo notificando apposito atto a tutte le parti e costituendosi nelle forme di cui al comma precedente”.
I soggetti di cui al comma 1 sono gli avvinti da rapporto di litisconsorzio necessario; quelli richiamati nel comma 3 sono invece gli interventori volontari o i chiamati in giudizio, che insieme al ricorrente “sono destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso”. Si tratta, con evidenza, di tutti i soggetti che, pur ritrovandosi parti del giudizio di I grado, possono anche essere solo titolari di posizioni scindibili, e che, se risultano pretermessi dall’appello principale, possono sempre rientrare nel giudizio di gravame, perché a loro volta ritengono di avere interesse ad impugnare (purché non decorsi i termini), oppure perché nei loro confronti l’appellato abbia proposto a sua volta appello, che viene definito incidentale solo perché va comunque incanalato nell’unico possibile giudizio impugnatorio, in nome della unitarietà del processo.
Ma ciò che più preme evidenziare è che l’art. 14, pur richiamando le modalità di costituzione della parte resistente – che, ex art. 23 del D.Lgs. n. 546, cit., nel processo tra due parti si traducono nel deposito delle controdeduzioni presso la segreteria dell’ufficio -, prevede nel comma 5 la notifica dell’apposito atto, così che, nell’ipotesi di pluralità di parti, la modalità d’intervento è proprio quella della notifica dell’atto, risultante dalla combinata applicazione del richiamato art. 23 cit. e dell’art. 14.
Il richiamo nell’art. 61 del D.Lgs. n. 546 del 1992 alle norme del processo di primo grado consente dunque di integrare le prescrizioni dell’art. 54, cit., in tal senso, dovendosi ritenere che, se nella ordinarietà delle ipotesi, l’appello incidentale rivolto nei confronti dell’appellante principale o di una delle altre parti legate dal vincolo di inscindibilità o di dipendenza delle cause, si propone con il deposito delle controdeduzioni nella segreteria della Corte di giustizia di II grado adita, quando invece tale appello incidentale è proposto nei confronti di soggetto, che per essere stato parte del giudizio di primo grado, ma in ragione del suo interesse in una causa scindibile, risulti pretermesso nel giudizio d’appello, le modalità notificatorie da utilizzare nei suoi confronti richiederanno la notifica dell’atto e non il mero deposito in segreteria.
Le conclusioni trovano ulteriore conferma dalla lettura, secondo la chiave interpretativa resa dalla giurisprudenza di legittimità, dell’art. 343 cod. proc. civ., norma che, sempre in forza del richiamo alla disciplina processual-civilistica prescritta dall’art. 49 cit., trova applicazione nel processo tributario, e a cui comunque va opportunamente fatto rinvio nell’interpretazione delle modalità con cui deve essere promosso l’appello incidentale in materia tributaria.
In merito questa Corte aveva già rilevato che “l’art. 343, primo comma, cod. proc. civ., secondo cui l’appello incidentale si propone nella prima comparsa o, in mancanza di costituzione in cancelleria, nella prima udienza o in quelle previste dagli artt. 331 e 332 – senza che sia necessaria, quindi, la notifica dell’atto di impugnazione – è applicabile all’appello incidentale rivolto contro l’appellante principale o contro altra parte già costituita o che si costituisca prima del decorso dei termini d’impugnazione, ma non quando l’appello incidentale sia proposto nei confronti di parti non presenti nel giudizio di secondo grado. In tal caso, se l’impugnazione ha per oggetto una sentenza pronunciata in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, il giudice deve assegnare all’appellante incidentale (che abbia tempestivamente proposto l’impugnazione con la comparsa o in udienza, nei confronti dell’appellante principale) il termine per integrare il contraddittorio nei confronti degli avversi litisconsorti necessari, a norma dell’art. 331 cod. proc. civ.; se, invece, l’impugnazione ha per oggetto una sentenza resa in cause scindibili, l’appellante incidentale deve provvedere alla notifica dell’impugnazione nei termini perentori di cui agli artt. 352 o 327 del codice di procedura civile” (principio enunciato e così massimato da Cass., 29 luglio 1994, n. 7127, e confermato in Cass., 2 maggio 2011, n. 9649 e 28 marzo 2017, n. 7886; cfr., inoltre, nella stessa prospettiva, 19 settembre 2014, n. 19754; 20 aprile 2016, n. 7769; 22 novembre 2017, n. 27750; cfr. anche 22 gennaio 2024, n. 2246).
È allora evidente che la prescrizione delle modalità di proposizione dell’appello incidentale, che il comma 2 dell’art. 54 della disciplina processual tributaria prevede essere contenuto, a pena di inammissibilità, nell’atto di costituzione dell’appellato, al pari della prescrizione delle modalità di proposizione dell’appello incidentale che, a pena di decadenza ex art. 343, primo comma, della disciplina processual-civilistica, è previsto sia contenuto nella medesima comparsa di risposta depositata, riguarda solo ed esclusivamente le ipotesi di processi relativi a cause inscindibili o dipendenti, non anche i giudizi nei quali siano portate al vaglio dell’organo giudiziario cause scindibili.
In conseguenza, la comminatoria della inammissibilità – nei processi tributari -, o della decadenza – nei processi civili -, afferisce al mancato rispetto delle prescritte modalità con riguardo alle cause inscindibili o dipendenti, non anche per quelle scindibili. Per queste, in una logica sequenziale riconducibile alle garanzie della difesa, tutelate dall’art. 24 Cost., e come tali di certo non negoziabili, si impone sempre e comunque una interpretazione della disciplina processuale coerente con il dettato costituzionale.
Pertanto, l’appellato, che a sua volta intenda impugnare la sentenza anche nei confronti di una parte del giudizio di primo grado, non convenuta dall’appellante principale in riferimento a cause scindibili, deve proporre l’appello, provvedendo alla notifica nel termine di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 546 del 1992, decorrente dal momento della conoscenza della sentenza e comunque non oltre i termini di decadenza dal diritto all’impugnazione.
Anche sotto il profilo della seconda opzione metodologica, la risposta al collegio remittente, sulla perfetta coerenza del sistema processuale civilistico, dettato dagli artt. 331 e 332 cit., con quello processual-tributario, dettato dall’art. 53 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non può che essere affermativa.
In conclusione devono affermarsi i seguenti principi di diritto “Nel processo tributario, in tema di giudizio con pluralità di parti, l’art. 53, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, laddove prevede la sua proposizione nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili, dipendenti e scindibili, così come delineata dalle regole processual-civilistiche, e pertanto, nei limiti del rispetto delle regole prescritte dagli artt. 331 e 332, cod. proc. civ., applicabili al processo tributario, non vi è l’obbligo di integrare il contraddittorio nei confronti delle parti, pur presenti nel giudizio di primo grado, il cui interesse alla partecipazione al grado d’appello, per cause scindibili, sia venuto meno”.
“Nel processo tributario, le modalità di proposizione dell’appello incidentale, che il comma 2 dell’art. 54 della disciplina processual-tributaria prevede che sia contenuto, a pena di inammissibilità, nell’atto di costituzione dell’appellato, al pari delle modalità di proposizione dell’appello incidentale che, a pena di decadenza, l’art. 343, primo comma, cod. proc. civ., prescrive sia contenuto nella medesima comparsa di risposta depositata, riguardano esclusivamente le ipotesi di processi relativi a cause inscindibili o dipendenti, non anche quei giudizi nei quali siano portate al vaglio dell’organo giudiziario cause scindibili. Pertanto, l’appellato, che a sua volta intenda impugnare la sentenza anche nei confronti di una parte del giudizio di primo grado, non convenuta dall’appellante principale in riferimento a cause scindibili, deve proporre l’appello nei confronti di quest’ultimo mediante notifica nel termine di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 546 del 1992, decorrente dal momento della conoscenza della sentenza e comunque non oltre i termini di decadenza dal diritto all’impugnazione”.
Alla luce di tali principi è allora possibile vagliare le ragioni del primo motivo di ricorso. Esse sono da rigettare.
Nella fattispecie in esame, la Commissione tributaria provinciale di Viterbo, per quel che rileva in questa sede, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio in favore della Commissione tributaria provinciale di Roma per le cartelle n. (Omissis), n. (Omissis), n. (Omissis), n. (Omissis), n. (Omissis) e n. (Omissis), trattandosi di cartelle per bollo auto afferenti la Regione Lazio e, quanto alle cartelle recanti crediti della Camera di Commercio, ha accertato la prescrizione di quello portato dalla cartella n. (Omissis), mentre non ha accolto la similare domanda con riferimento alla cartella n. (Omissis). Ancora, risulta dagli atti (pagine 12 e 13 del ricorso per cassazione e pagine 4 e 5 del controricorso), che la società Studio A ’78 Sas di A.A. & C., nel proporre l’appello incidentale, aveva dedotto che i giudici di primo grado avevano erroneamente dichiarato la propria incompetenza territoriale con riferimento alle cartelle di pagamento relative alla tassa automobilistica, mentre non aveva impugnato la decisione dei giudici di primo grado inerente la cartella n. (Omissis), recante crediti della Camera di Commercio di Viterbo.
Di conseguenza, mentre con riferimento alle cartelle riguardanti il bollo auto afferenti la Regione Lazio il motivo proposto difetta di interesse, in quanto le suddette cartelle sono state tutte oggetto di provvedimento di discarico amministrativo ex art. 4, primo comma, del D.L. n. 119 del 2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 136 del 2018, con riguardo alla cartella di pagamento n. (Omissis), recante crediti della Camera di Commercio di Viterbo, la società ricorrente doveva proporre impugnazione incidentale avverso la pronunzia di primo grado, anche nella parte in cui aveva ritenuto valida la notifica relativa alla suddetta cartella, eseguita in data 18 agosto 2022 perché consegnata direttamente a A.A., che, quindi, deve ritenersi passata in giudicato.
Nel caso di specie, infatti, non sussisteva litisconsorzio necessario ma, soprattutto, il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda della società contribuente nei confronti della Camera di Commercio per quanto concerne la cartella di pagamento n. (Omissis); la società contribuente, dunque, rimasta soccombente nei confronti della Camera di Commercio di Viterbo, non ha impugnato il capo della sentenza di primo grado a lei sfavorevole.
Per l’esistenza di una situazione che comporti l’obbligo dell’appellante principale di chiamare in causa anche in appello, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., tutte le parti presenti nella prima fase del processo, è necessario, invece, che i rapporti dedotti in causa siano inscindibili, non suscettibili di soluzioni differenti nei confronti delle varie parti del giudizio, o che due (o più) rapporti dipendano logicamente l’uno dall’altro, o da un presupposto di fatto comune, in modo tale da non consentire razionalmente l’adozione nei confronti delle diverse parti di soluzioni non conformi e capi di decisione logicamente in contraddizione tra loro, come previsto dall’art. 14 del D.Lgs. n. 546 del 1992, a norma del quale “se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi”. Nel caso di specie non si è verificato nulla di tutto questo, come dimostra proprio la circostanza che sono state adottate, senza contraddizioni insanabili, soluzioni non del medesimo contenuto nei confronti della Regione Lazio e della Camera di Commercio di Viterbo.
L’omessa citazione in appello dei suddetti enti non implicava dunque conseguenze sulla validità ed ammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle entrate e dall’Agenzia delle entrate – Riscossione nei soli confronti della società contribuente.
In conclusione il primo motivo va rigettato.
Esaminando ora gli altri motivi, con il secondo la società deduce la “violazione degli artt. 23 e 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992, degli artt. 115 e 345 cod. proc. civ., degli artt. 24 e 111 Cost. – violazione del divieto di domande ed eccezioni nuove in appello – nullità della sentenza – vizio denunciabile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.”
La Commissione tributaria regionale, a fronte della tempestiva ed espressa eccezione di prescrizione del credito portato dalla cartella di pagamento n. (Omissis), formulata dalla società STUDIO A’78 Sas nel ricorso di primo grado e ribadita in appello, non aveva accertato se la difesa erariale avesse tempestivamente dedotto l’interruzione della prescrizione. In tal modo il giudice di secondo grado aveva errato nel non rilevare la tardività e l’inammissibilità dell’allegazione degli atti interruttivi, cui l’Agenzia delle entrate aveva provveduto solo con il deposito dell’atto d’appello principale. La deduzione era dunque inammissibile in secondo grado ed erroneamente nella sentenza ora impugnata si era ritenuta provata l’interruzione del termine prescrizionale.
Il secondo motivo è infondato.
La questione che la contribuente pone è se, a fronte della prescrizione del credito erariale, tempestivamente eccepita dinanzi al giudice di primo grado, l’Amministrazione finanziaria possa dedurre e allegare atti interruttivi della prescrizione per la prima volta in sede d’appello.
La Commissione regionale ha respinto l’eccepita inammissibilità delle allegazioni erariali affermando la producibilità in grado d’appello di “documenti non depositati nel giudizio di prime cure”. Le conclusioni cui perviene la pronuncia sono corrette, alla luce della disciplina normativa e della giurisprudenza.
Infatti, posto che la questione qui sollevata esula dalla proposizione di “domande nuove” e al più richiama l’art. 57, comma 2, del D.P.R. n. 546 del 1992, secondo il quale “non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio”, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, di cui all’art. 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, senza estendersi alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o, quanto alle difese erariali, alla deduzione, in grado di appello, di fatti o ragioni volti a contestare le censure mosse dal contribuente con il ricorso introduttivo, alle quali rimane quindi circoscritta l’indagine rimessa al giudice (cfr. Cass., 5 dicembre 2014, n. 25756, nel quale si è ritenuta ammissibile la deduzione dell’Ufficio di elementi di fatto meramente volti ad integrare il quadro probatorio fondante la pretesa fiscale, senza immutare i fatti costitutivi della stessa, per come indicati nell’atto di accertamento; cfr. inoltre Cass., 31 maggio 2016, n. 11223; 21 novembre 2016, n. 23587; 28 aprile 2023, n. 11284).
Peraltro, nel caso di specie deve tenersi conto dell’art. 58 del D.P.R. n. 546 del 1992, il cui comma 2, ratione temporis vigente, prevedeva che “è fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.
La norma è stata interpretata nel senso che la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti, anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 cod. proc. civ., deve comunque rispettare il termine previsto dall’art. 32, comma 1, del già richiamato decreto legislativo, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza, con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1, termine da considerarsi perentorio (cfr. Cass., 24 giugno 2021, n. 18103; da ultimo, Cass., 27 gennaio 2022, n. 2377; 4 gennaio 2022, n. 14; 5 gennaio 2022, n. 147; 27 gennaio 2022, n. 2377).
Nel caso in esame la produzione dei documenti – con l’atto d’appello – è stata tempestiva e nessun fatto nuovo è stato dedotto, essendosi limitata l’Amministrazione finanziaria a contestare la fondatezza dell’eccezione di prescrizione, sollevata dalla contribuente, così dimostrando il mancato decorso del termine prescrizionale.
La Commissione tributaria regionale, affermando che in grado di appello potevano utilmente prodursi documenti (nella specie atti interruttivi della prescrizione) non depositati nel giudizio di primo grado (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata), si è conformata a giurisprudenza ampiamente consolidata, tenendo anche conto che la mera preesistenza di tali documenti alla conclusione del giudizio di primo grado non ne precludeva la successiva produzione nel giudizio di secondo grado.
Il secondo motivo va dunque rigettato.
Con il terzo mezzo la società deduce la “violazione degli artt. 4 e 10 del D.Lgs. n. 546 del 1992 – illegittima statuizione di difetto di competenza territoriale della Commissione tributaria provinciale adita – vizio denunciabile ex art. 360, primo comma, n. 2, cod. proc. civ.”.
La ricorrente aveva impugnato l’intimazione di pagamento, rilevando tanto vizi propri di atti esattivi emessi dall’Agente della Riscossione quanto la prescrizione del diritto nei confronti degli Enti titolari dei tributi e, pertanto, il giudizio doveva necessariamente radicarsi avanti alla Commissione Tributaria di Viterbo, competente territorialmente con riferimento alla sede dell’Agente di riscossione. Posto che l’impugnativa poteva avere ad oggetto la contestazione del credito nei confronti degli Enti titolari dei tributi (Agenzia delle Entrate, Camera di Commercio di Viterbo, Regione Lazio), il procedimento doveva essere unitariamente instaurato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale competente in base alla sede dell’Agente della Riscossione che aveva emanato l’intimazione di pagamento opposta. La preminente esigenza di evitare il possibile contrasto di giudicati (giacché sarebbe ben potuto accadere che la Commissione tributaria provinciale di Viterbo ritenesse valide le notifiche degli atti interruttivi e quella di Roma prescritti i crediti, o viceversa) non poteva che condurre ad una statuizione diametralmente opposta a quella adottata invece dal giudice provinciale di Viterbo e poi da quello regionale.
La società Studio A’78 Sas aveva anche eccepito la prescrizione del credito maturata tra la (contestata) notifica delle cartelle di pagamento e la ricezione dell’intimazione di pagamento impugnata, ovvero nell’arco temporale intercorrente tra le notifiche di atti emanati esclusivamente da Equitalia Sud Spa Anche sotto tale profilo, ex art. 10 del D.Lgs. n. 546-1992, si doveva pervenire alla soluzione opposta rispetto a quelle assunte da entrambe le pronunce di merito.
Il terzo motivo è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, come già rilevato, le suddette cartelle sono state tutte oggetto di provvedimento di discarico amministrativo ex art. 4, comma 1, del D.L. n. 119 del 2018, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 136 del 2018.
Con il quarto mezzo si deduce la “violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla domanda di accertamento dell’intervenuta prescrizione dei crediti. Conseguente violazione degli artt. 24 e 111 Cost. – Nullità della sentenza – Vizio di error in procedendo denunciabile ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.”.
Secondo parte ricorrente il Giudice di appello, nell’affermare laconicamente che “generiche e non centrate sono le doglianze introdotte nell’appello incidentale, atteso che corretto e meticoloso è stato il computo delle notifiche”, aveva obliterato integralmente lo specifico motivo d’appello con il quale la società STUDIO A’78 Sas aveva domandato, in riforma della prima statuizione, l’accertamento della prescrizione di tutti i crediti portati dalle cartelle di pagamento presupposte dall’intimazione impugnata.
Il quarto motivo è inammissibile.
Il tenore della motivazione della sentenza rende palese che la Commissione tributaria regionale abbia preso in esame le doglianze articolate dalla società contribuente in merito alla prescrizione dei crediti fiscali, concludendo che “corretto e meticoloso” era stato il computo delle notifiche eseguito dal giudice di primo grado. Si tratta, con evidenza, di un accertamento in fatto, compiuto dal giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità.
Con il quinto mezzo si deduce la “violazione di legge in relazione agli artt. 2945, 2948, 2953 cod. civ. – art. 5 del D.L. n. 953 del 1982; all’art. 3 del D.L. n. 2 del 1986 – Vizio denunciabile ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.”.
La Commissione tributaria provinciale avrebbe erroneamente ritenuto che l’eccezione di prescrizione andasse proposta mediante l’impugnazione delle cartelle di pagamento, mentre le doglianze della società rimanevano utilmente esperibili laddove si considerava che, anche volendo dare per notificate regolarmente le cartelle di pagamento, i crediti erano comunque prescritti, perché mancavano atti interruttivi medio tempore posti in essere rispetto all’intimazione di pagamento, che era stata notificata quando i termini prescrittivi per i singoli tributi erano oramai spirati. La società STUDIO A’78 Sas aveva, infatti, domandato non solo l’accertamento dell’inesistenza e-o nullità delle notifiche delle cartelle di pagamento, ma anche la declaratoria di prescrizione dei crediti a vario titolo contenuti nelle cartelle per il decorso del termine prescrizionale sancito per ogni tributo. Ne conseguiva che, a fronte dello specifico motivo di appello finalizzato all’accertamento della “intervenuta prescrizione del debito delle cartelle nr. (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis)”, avrebbe dovuto fare seguito una statuizione che accogliesse o rigettasse la censura. Con la mancata pronuncia la sentenza violava pertanto l’art. 112 cod. proc. civ. Inoltre la sentenza impugnata aveva illegittimamente ritenuto che la definitività delle cartelle avesse precluso alla società contribuente il rilievo della prescrizione dei crediti in esse contenuti, invece maturata: per l’imposta sul valore aggiunto e l’imposta regionale sulle attività produttive (crediti contenuti nelle cartelle nn. 1, 2, 3, 4, 7, 11, 14 dell’elencazione più volte citata), con il decorso del quinto anno ex art. 2948 cod. civ., successivo alla notifica dell’ultimo atto interruttivo; per la tassa automobilistica (crediti portati dalle cartelle di pagamento nn. 5, 8, 10, 12, 13, 15 dell’elenco), con il decorso del terzo anno successivo alla notifica dell’ultimo atto interruttivo, ex art. 5 del D.L. n. 953 del 1982, ex art. 3 del D.L. n. 2 del 1986; per i diritti annuali dovuti alla Camera di Commercio (contenuti nelle cartelle di pagamento di cui ai nn. 17 e 12 dell’elenco), con il decorso del quinto anno successivo all’ultimo atto interruttivo, ex art. 2948, n. 4, cod. civ., ed ex art. 10 del D.M. n. 54 del 2005.
Il quinto motivo è infondato.
Ed invero, questa Corte, con orientamento oramai consolidato, ha affermato che “La mancata impugnazione della cartella di pagamento nel termine di decadenza previsto dalla legge produce soltanto l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito, ma non anche la cd. conversione del termine di prescrizione breve – eventualmente previsto – in quello ordinario decennale, di cui all’art. 2953 c.c. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato” (Sez. U., 17 novembre 2016, n. 23397; Cass., 3 maggio 2019, n. 11760; 18 maggio 2018, n. 12200).
Ad integrare il principio soccorre tuttavia una altrettanto consolidata interpretazione di questa Corte, secondo cui “Il credito erariale per la riscossione dell’imposta (a seguito di accertamento divenuto definitivo) è soggetto non già al termine di prescrizione quinquennale previsto all’art. 2948, n. 4, c.c. “per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, bensì all’ordinario termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c., in quanto la prestazione tributaria, attesa l’autonomia dei singoli periodi d’imposta e delle relative obbligazioni, non può considerarsi una prestazione periodica, derivando il debito, anno per anno, da una nuova ed autonoma valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti impositivi” (cfr. Cass. 15 aprile 2019, n. 10549; 14 maggio 2018, n. 11624; 9 agosto 2016, n. 16713).
Da queste pronunce di diritto si ricava la conclusione che i crediti di imposta sono soggetti alla prescrizione ordinaria decennale, ex art. 2946 cod. civ., a meno che la legge disponga diversamente (come, ad esempio, l’art. 3, comma 9, legge n. 335 del 1995, per i contributi previdenziali).
Ciò posto, nella vicenda in esame, sulla premessa che in questa sede si discute dei soli crediti erariali per quanto già chiarito, e non già dei crediti della Regione Lazio (per il discarico dei tributi) e della Camera di Commercio di Viterbo (che avrebbe dovuto essere chiamata in giudizio dalla società), contrariamente a quanto affermato dalla società contribuente non andava applicata la prescrizione quinquennale ex art. 2948 cod. civ., ma quella decennale ex art. 2946 cod. civ. A tal fine la Commissione tributaria regionale correttamente ha ritenuto generiche e non centrate le doglianze introdotte nell’appello incidentale e fondato l’appello principale, dando atto che la cartella esattoriale n. (Omissis) era afferente ad una pretesa fiscale non prescritta, essendo stata posta in essere una procedura di pignoramento a seguito di parziale pagamento del condono ex legge n. 289-2002 (attività interruttiva della prescrizione); quanto alla cartella n. (Omissis), ha evidenziato che essa era risultata correttamente notificata nelle forme di cui all’art. 145 cod. proc. civ., come avveniva per le notifiche destinate alla società di persone.
D’altronde, come emerge a pag. 12 del controricorso, e nulla di specifico riferendo al riguardo la società contribuente, l’intimazione era stata notificata in data 25 febbraio 2016, entro il termine decennale previsto dall’art. 2946 cod. civ., in quanto le cartelle afferenti a crediti erariali erano state notificate a far data dal 15 marzo 2006, fatta eccezione per la cartella n. (Omissis), in relazione alla quale era stata posta in essere una idonea attività interruttiva del termine prescrizionale.
Anche questo motivo va pertanto rigettato.
Con il sesto mezzo si deduce l’ “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Esclusione di atti interruttivi della prescrizione. Vizio denunciabile ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.”.
A seguito della espressa eccezione di prescrizione, formulata dalla società nell’atto introduttivo del primo grado, Equitalia Sud Spa aveva dedotto l’esistenza di avvisi di intimazione, notificati medio tempore (tra le cartelle e l’intimazione impugnata) alla società, utili ad interrompere il decorso del termine prescrizionale. La società contribuente aveva censurato l’assoluta insufficienza della documentazione versata in atti dall’Agente della riscossione – copie di relate di notifica di alcuni avvisi di intimazione, da cui non si evinceva a quali cartelle si riferissero- ed identiche deduzioni erano state offerte a sostegno dell’impugnativa incidentale. Dell’esame di tali eccezioni non vi era la minima traccia nella prima decisione né, tanto meno, nella sentenza impugnata in cui il giudice di appello non aveva affrontato la questione, né aveva dato conto di averlo fatto “implicitamente”. Inoltre, al pari di quella di primo grado, la pronuncia impugnata mostrava una valutazione centrata sull’accertamento della prescrizione al momento dell’emissione delle cartelle di pagamento, laddove la domanda ribadita in sede di impugnazione (e reiterata all’udienza di trattazione del 4 giugno 2018), oltre alla censura delle notifiche delle cartelle, era volta al riconoscimento della prescrizione dei crediti portati dalle cartelle e maturata tra la loro (eventuale) notifica e l’emissione dell’intimazione di pagamento.
Avendo, tanto il primo giudice quanto il Collegio di appello, trascurato di accertare la ricorrenza e la sufficienza degli atti interruttivi richiamati dall’Agente della Riscossione, la sentenza tradiva l’omesso esame di un fatto controverso, decisivo per la decisione della questione.
Il sesto motivo è inammissibile.
L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione introdotta dall’art. 54, primo comma, lett. b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito della legge 7 agosto 2012, n. 134 può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia. Lo specifico vizio deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Si è dunque avvertito che il mancato esame di elementi istruttori non integra di per sé il fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053; 20 novembre 2015, n. 23828; 12 ottobre 2017, n. 23940; 3 ottobre 2018, n. 24035).
Nel caso di specie la censura, ancora una volta, verte sulla eccepita prescrizione dei crediti portati dalle cartelle, o, a prescindere dalle cartelle, sulla prescrizione intervenuta tra la notifica delle cartelle e la notifica dell’intimazione di pagamento qui impugnata. Sennonché, nonostante la reiterazione di ragioni indirizzate a dimostrare l’estinzione del credito per l’inutile decorso del termine legale al suo utile esercizio – già di per sé privo di pregio perché ci si trova dinanzi a pretese erariali a cui, per quanto già chiarito nell’esame dei pregressi motivi, trova applicazione la prescrizione decennale -, le censure restano generiche.
Pur lamentando la contribuente di aver addotto in primo e secondo grado ragioni indirizzate a criticare l’assoluta insufficienza della documentazione versata in atti dall’Amministrazione finanziaria, il motivo resta del tutto generico. Nella formulazione del motivo in alcun modo risulta individuata e adeguatamente illustrata anche una sola circostanza, ritenuta decisiva, non esaminata dal giudice d’appello, laddove, di contro, dalla lettura della sentenza emerge che quest’ultimo ha compiuto un accertamento in fatto, identificando anche, quanto alle due cartelle per le quali poteva prospettarsi l’inutile decorso dei termini di prescrizione, gli atti che avevano interrotto la prescrizione stessa.
In tal modo la censura si rivela inammissibile, pur quando voglia tenersi conto della più recente giurisprudenza in tema di travisamento della prova, perché manca di specificare puntualmente quali fossero le risultanze decisive, tali da assurgere a fatto ineludibile, omesso o stravolto dall’organo giudicante (cfr Sez. U, 5 marzo 2024, n. 5792).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le questioni esaminate, con peculiare riferimento al primo motivo, per il quale si è ritenuto di sottoporre l’esame a queste Sezioni unite, giustificano la compensazione delle spese processuali tra le parti costituite.
Nessuna statuizione va invece assunta sulle spese processuali nei confronti degli altri enti convenuti, avuto riguardo alla circostanza che la Regione Lazio e la Camera di Commercio Industria e Artigianato di Viterbo non hanno svolto difese, restando intimate.
P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite rigetta il ricorso. Compensa le spese tra la ricorrente e le Agenzie controricorrenti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili, il giorno 5 dicembre 2023
Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2024