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La Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle tre questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e della legge 31 agosto 2022, n. 130 (Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari).
Le censure riguardano: 1) l’ipotizzata lesione dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici tributari, sub specie di asserita perdita di serenità e turbamento psicologico del magistrato a causa dell’eccessiva ingerenza del Ministero dell’economia e delle finanze nella gestione della giustizia tributaria; 2) il compenso, la nomina, la promozione dei giudici tributari, i poteri del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il sistema elettorale del Consiglio di presidenza, le sanzioni disciplinari e l’attribuzione di funzioni collegiali ai giudici onorari.
Di seguito si riporta la sintesi della sentenza:
La Corte Costituzionale ha ripercorso brevemente i momenti caratterizzanti l’articolato e complesso quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, così riassunto:
Con la legge 14 luglio 1864, n. 1830 (con la quale fu stabilita, tra l’altro, un’imposta sui redditi della ricchezza mobile) furono istituite commissioni comunali e consorziali, per lo svolgimento di tutte le operazioni occorrenti per appurare e determinare le somme dei redditi e dell’imposta dovuta dai contribuenti. Contro le “somme di reddito” deliberate dalle già menzionate commissioni era ammesso il ricorso, tanto nell’interesse dei contribuenti quanto nell’interesse del fisco, presso una commissione provinciale.
Con successiva legge 20 marzo 1865, n. 2248 (Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia), Allegato E (Legge sul contenzioso amministrativo), furono aboliti i tribunali del contenzioso amministrativo e furono affidate al giudice ordinario le controversie tra cittadini e pubbliche amministrazioni nelle quali si facesse «questione di un diritto civile o politico» (art. 2), comprese quelle relative alle imposte dirette e indirette; vennero tuttavia escluse dalla competenza delle autorità giudiziarie le questioni relative all’estimo catastale e al riparto di quota e tutte quelle sulle imposte dirette (sino a che non avesse avuto luogo la pubblicazione dei ruoli) che rimanevano attribuite alle predette commissioni.
Le commissioni così delineate erano, dunque, organi amministrativi incardinati presso l’amministrazione delle entrate. Questa natura, tuttavia, non era idonea ad assicurare l’indipendenza e l’imparzialità.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, con sentenza n. 12 del 1957, questa Corte ritenne che le commissioni tributarie, «pur comunemente chiamandosi amministrative per ragioni storiche e tradizionali», costituissero «organi di giurisdizione speciale» in quanto «chiamate a giudicare in materia di diritti soggettivi, definendo, nel contrasto tra il Fisco e il contribuente, qual è la volontà della legge che nel caso concreto dev’essere attuata»; in particolare, nella predetta sentenza si sottolineava come le commissioni tributarie pervengono alle loro pronunce «attraverso l’applicazione di formali disposizioni di procedura, poste dalla legge per la regolarità dei loro giudizi e anche a tutela dei diritti delle parti contendenti; che le loro pronunce, come qualsiasi altra pronuncia di organo giurisdizionale, nel caso di mancanza di impugnativa, acquistano valore definitivo e forza di giudicato formale».
Veniva così affermata la natura giurisdizionale delle commissioni tributarie; natura confermata con successiva sentenza n. 287 del 1974 nella quale questa Corte ha sottolineato come la legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria) e il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), intervenendo sulla composizione delle commissioni tributarie, sul loro funzionamento e sulle loro competenze funzionali (principalmente al fine di assicurarne l’autonomia e l’indipendenza e in modo da garantire l’imparziale applicazione della legge), avevano eliminato tutte le disposizioni dalle quali traeva fondamento la tesi della natura amministrativa delle commissioni tributarie, determinando «la sicura convinzione che le commissioni tributarie, così revisionate e strutturate, debbono ora considerarsi organi speciali di giurisdizione».
Le commissioni tributarie sono state quindi da ultimo disciplinate dal d.lgs. n. 545 del 1992 e dal d.lgs. n. 546 del 1992 quali organi giurisdizionali composti da giudici non professionali prevedendo criteri oggettivi di reclutamento e l’istituzione di un organo di autogoverno, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
La Corte Costituzionale, confermando l’indirizzo già assunto fin dalla sentenza n. 41 del 1957 (e ribadito nella sentenza n. 215 del 1976) sulla VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, con ordinanza n. 144 del 1998, ha chiarito che l’«ampliamento della competenza delle commissioni tributarie non vale a far ritenere nuovo il giudice tributario in modo tale da ravvisarsi un diverso giudice speciale, in quanto è rimasto non snaturato né il sistema di estrazione dei giudici (anzi migliorato dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità), né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie» e che «pertanto le attuali commissioni tributarie non possono essere considerate, agli effetti del combinato disposto dell’art. 102 e VI disposizione transitoria della Costituzione, nuovi giudici speciali, come tali vietati».
La modifica della disciplina della giustizia tributaria realizzata con la legge n. 130 del 2022 – che si colloca nell’ambito degli interventi previsti nel PNRR per superare le criticità del “sistema Paese” – vuole rappresentare una risposta organica e di sistema per risolvere molte delle problematicità insite nel precedente assetto ordinamentale.
Intervenendo su taluni aspetti cruciali e delicati della giustizia e del processo tributari, la novella normativa ha avvicinato molto la giurisdizione tributaria a quella ordinaria.
Si tratta di una riforma che, a completamento di un percorso di 160 anni, ha contribuito in modo decisivo a realizzare nel nostro ordinamento una giurisdizione (che si affianca a quella ordinaria, amministrativa, contabile e militare), composta, a regime, da magistrati tributari: a) professionali a tempo pieno; b) selezionati con pubblico concorso; c) specializzati nella materia tributaria.
Ai fini della rilevanza occorre ulteriormente verificare se le norme asseritamente interferenti sullo status di magistrato ne compromettano l’indipendenza e la terzietà riflettendo lesioni non solo potenziali delle garanzie costituzionali ma violazioni attuali in relazione alla concreta questione posta all’esame dei rimettenti e alla specifica e conseguente decisione che sono chiamati a adottare nei giudizi a quibus .
Questi presupposti sono del tutto assenti nelle odierne questioni, alla luce della stessa motivazione sulla rilevanza fornita dai giudici rimettenti in relazione all’attuale sistema normativo sull’organizzazione della giustizia tributaria e sui concreti e specifici elementi caratterizzanti i giudizi a quibus che permettano di dubitare realmente dell’indipendenza del giudice.
Nelle fattispecie in esame, infatti, l’asserito perturbamento del giudice, derivante dalla sensazione di dover giudicare in merito a una controversia tributaria non “in un campo neutro” ma, per così dire, “in casa” del MEF, con i possibili condizionamenti connessi ai profili organizzativi, è privo di riscontri oggettivi circa la concreta lesione ad opera delle disposizioni censurate delle garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura sancite dalla Costituzione a presidio dell’attività giurisdizionale.
Alla luce di tutto quanto sopra, le questioni di legittimità costituzionale relative al primo gruppo di censure sono inammissibili per difetto di rilevanza in quanto non si ravvisa in concreto quella situazione di effettiva interferenza sulle condizioni di indipendenza e terzietà nel decidere tali da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius dicere del giudice tributario.
Il secondo gruppo di censure prospetta una serie di dubbi di legittimità costituzionale relativi a disposizioni aventi ad oggetto il compenso, la nomina, la promozione dei giudici tributari, i poteri del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il sistema elettorale del Consiglio di presidenza, le sanzioni disciplinari e l’attribuzione di funzioni collegiali ai giudici onorari e quindi al corretto funzionamento della giustizia tributaria.
Anche queste questioni sono inammissibili per irrilevanza.
L’oggetto dei giudizi a quibus riguarda, infatti, controversie tra l’Agenzia delle entrate e privati afferenti, rispettivamente, alla debenza del contributo unificato (r.o. n. 50 e n. 128 del 2023) e dell’imposta sul valore aggiunto (r.o. n. 144 del 2022), che nulla hanno a che vedere con il compenso, la nomina, la promozione dei giudici tributari, i poteri del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il sistema elettorale del medesimo Consiglio, le sanzioni disciplinari e la partecipazione ai collegi da parte dei giudici onorari.
Peraltro, neppure si profila il pericolo di una sostanziale sottrazione delle disposizioni censurate al controllo di legittimità costituzionale, essendo agevole ipotizzare altre sedi in cui le medesime questioni potrebbero trovare una ben più pertinente ragion d’essere. Difatti, la normativa in esame potrebbe essere eventualmente sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) nel corso di un giudizio instaurato dinanzi alla competente autorità giurisdizionale.
Alla luce della giurisprudenza di questa Corte già richiamata con riguardo al primo gruppo di censure, devono essere dichiarate inammissibili, perché irrilevanti, anche tutte le questioni del secondo gruppo sollevate con le tre ordinanze indicate in epigrafe.